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  • Immagine del redattoreLorenzo Cornia

Il reato di omesso versamento dell'assegno di mantenimento: illecito penale o strumento di abuso?

Aggiornamento: 17 giu 2023



La Costituzione della Repubblica italiana, all’art. 29, indica la famiglia come una “società naturale” meritevole di tutela da parte dello Stato, imponendo alle istituzioni la tutela della famiglia medesima, nel rispetto della “uguaglianza morale e giuridica” dei coniugi.

Dato questo precetto giuridico superiore, è una conseguenza naturale che il codice penale preveda un apparato normativo specifico a tutela della famiglia, in particolare gli articoli dal 570 al 574 ter del codice penale. Tra questi, sono noti agli operatori del settore delle separazioni coniugali e del divorzio gli articoli 570 e 570 bis, che puniscono chi a vario titolo, con condotte attive o omissive, elude l’obbligo di fornire l’adeguato sostegno economico alla famiglia. L’art. 570 bis, in particolare, è stato introdotto nell’ordinamento giuridico nel 2018 per punire

specificamente la condotta di chi, in sede di separazione e divorzio, omette di versare gli assegni di mantenimento per il coniuge o per i figli; la nuova norma è stata prevista per estendere le pene previste (in costanza di matrimonio) per chi omette di prestare il mantenimento alla famiglia, anche ai coniugi separati. Il fatto che la norma sia stata introdotta nel 2018 non significa che in precedenza la condotta dell’omissione del versamento dell’assegno di mantenimento non avesse una rilevanza penale; la norma infatti era disciplinata dall’art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898 e dall’art. 3 della legge 8 febbraio 2006, n. 54, che nel 2018 sono stati abrogati e sostanzialmente trasposti nella nuova norma; la funzione del D. Lgs. 01/03/2018, n. 21, infatti, non era quella di disciplinare una nuova fattispecie penale, bensì di riordinare l’ordinamento penale, facendo confluire nel codice penale alcune norme che in precedenza ne erano avulse.

Quella disciplinata dall’art. 570 bis, dunque, è una fattispecie consolidata da tempo nell'ordinamento e risalente ai tempi della legge sul divorzio.

In queste pagine commentiamo da tempo il fatto che la giurisprudenza in materia di separazione e divorzio sia affetta da retaggi culturali obsoleti che hanno origine in tempi in cui la legge, la percezione sociale e la giurisprudenza erano rigidamente orientati verso l’affido esclusivo dei minori; commentando l’art. 570 bis c.p., è opportuno aver conto del fatto che si tratta di una norma nata in tempi in cui, a seguito della separazione, un genitore veniva letteralmente obliterato dalla vita del figlio e sostanzialmente inibito dalla sua frequentazione materiale; in tale contesto era naturale che l’unico contributo del genitore non affidatario fosse di carattere economico. Proprio per ovviare a questa asimmetria, i cui limiti giuridici, sociali, biologici, pedagogici e antropologici sono via via divenuti sempre più evidenti con il passare del tempo, il Legislatore nel 2006 ha innovato la materia passando da un regime di affido esclusivo a un regime di affido condiviso; non è questa la sede per commentare la resistenza politica e giudiziaria che è stata opposta a questa rivoluzione normativa, basti osservare che la giurisprudenza non si è adeguata al nuovo regime, restando ancorata stabilmente al metodo dell’assegno di mantenimento per disciplinare gli aspetti economici, pur con tutte le incoerenze che da tempo commentiamo, sebbene la nuova norma prevedesse solo in via residuale tale strumento, coerentemente con un sistema che, essendo improntato all’accudimento congiunto del minore da parte dei genitori, dovrebbe essere prioritariamente ispirato al mantenimento diretto. La continuità della normativa penale, a fronte della rivoluzione della normativa civile, non deve sorprendere; come detto, il regime di affido condiviso dovrebbe essere naturalmente improntato al mantenimento diretto; tuttavia il Legislatore ha comunque previsto, teoricamente in via residuale, l’istituto dell’assegno di mantenimento per consentire al giudice di intervenire in casi eccezionali di asimmetria (in primis in termini di capacità economica o tempi di frequentazione), rispettando il precetto di eguaglianza genitoriale imposto dall’art. 29 della Costituzione.

Potrebbe apparire un eccesso di zelo, quello del Legislatore che nel 2018, oltre 12 anni dopo l’entrata in vigore della legge sull’affido condiviso, si è premurato di dare una nuova collocazione alla fattispecie penale dell’omissione del mantenimento; in fin dei conti, come detto, l’assegno di mantenimento dovrebbe diventare uno strumento via via sempre più residuale, con il diffondersi dell’affido condiviso, e con la progressiva estinzione dell’istituto dell’assegno di mantenimento, dovrebbe progressivamente estinguersi anche la disciplina penale della relativa condotta omissiva.

Ma abbiamo visto che non è così. Come detto, la giurisprudenza italiana si è dimostrata tetragona rispetto all’innovazione apportata dalla legge del 2006 e la prassi vigente tutt’oggi nella maggioranza dei tribunali italiani, al momento della separazione, consiste, in totale continuità con la normativa civile abrogata da più di 15 anni, nell’identificare un “genitore collocatario”, attribuirgli la frequentazione prioritaria dei figli e con questa il diritto di abitazione sulla casa coniugale, e imporre automaticamente al “genitore non collocatario” il pagamento di un cospicuo assegno, che come abbiamo commentato più volte, troppo spesso viene determinato in modo da non avere nessuna corrispondenza né con le esigenze della prole, né con le capacità economiche del genitore obbligato, né tantomeno con i criteri normativi imposti dall’art. 337 ter c.c.

Essendo ancora così diffuso il ricorso, da parte dei tribunali civili, all’istituto dell’assegno di mantenimento, con annessa conflittualità, spesso esasperata, la relativa disciplina penale è più viva che mai. Ma quanto viva?

Per rispondere alla domanda ci soccorre, ancora una volta, il sito istituzionale dell’Istat, che alla pagina

illustra tutti i procedimenti penali in essere nel 2017; l’aggiornamento dei dati purtroppo non brilla per tempestività, tanto più che essendo gli ultimi dati disponibili risalenti all’anno precedente all’entrata in vigore dell’art. 570 bis c.p., non è possibile disporre del dettaglio di quanti procedimenti siano relativi all’art. 570 e quanti relativi all’art. 570 bis, ma come detto, non deve trarre in inganno il fatto che l’art. 570 bis sia entrato in vigore solo nel 2018, perché la fattispecie aveva già una disciplina normativa penale anche in precedenza.

L’esame dei dati Istat lascia abbastanza sconcertati.

L’istituto nazionale elenca 397 fattispecie di reato per cui, nel 2017, era pendente un procedimento di reato presso una Procura della Repubblica. Fra queste 397 fattispecie, il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare si colloca all’undicesimo posto con ben 27.387 procedimenti in corso, di cui solo 242 archiviati!

A titolo informativo, gli unici reati più frequenti sono, nell’ordine dal meno frequente al più frequente:


appropriazione indebita 31.105

evasione fiscale e contributiva 34.360

ricettazione 43.234

lesioni personali colpose 46.630

produzione e spaccio di stupefacenti o sostanze psicotrope 65.953

truffa 82.262

lesioni personali volontarie 86.078

furto semplice e aggravato 89.793

minaccia 91.002

delitti di truffa 97.384


Purtroppo non è dato sapere quanti dei 27.387 procedimenti penali siano consequenziali a procedimenti di separazione e divorzio e quanti siano riferibili a genitori che, in costanza di matrimonio, abbiano fatto mancare l’adeguato sostegno economico alla famiglia, ma sulla base della comune percezione è ragionevole affermare che la quasi totalità di tali procedimenti penali siano correlati a processi di separazione e divorzio e allora il dato diventa decisamente allarmante.


Non è antropologicamente verosimile, infatti, che al momento delle separazione dal coniuge un numero così grande di genitori cessi improvvisamente di adottare le cure parentali al cui espletamento l’essere umano è biologicamente stato programmato da centinaia di migliaia di anni di evoluzione.

Sempre nell’anno 2017, l’Istat informa che il numero di condannati per lo stesso reato è pari a 3.996; non è semplice confrontare tali dati, poiché i condannati nel 2017 non saranno, verosimilmente, le stesse persone il cui procedimento concorre a formare gli oltre 27.000 procedimenti pendenti nello stesso anno 2017 (fatta salva forse l’ipotesi della reiterazione di reato), tuttavia è evidente lo iato tra il numero di persone sottoposte a processo e il numero di condannati.

Da tempo commentiamo il fatto che i criteri forfettari diffusi nella prassi dei tribunali portano a determinare importi errati che troppo spesso sono materialmente impossibili da versare per il genitore obbligato; confrontando i criteri oggettivamente errati in uso nel processo civile con le statistiche del processo penale non si può fare a meno di provare un brivido.

La norma penale di per sé è ineccepibile; non si può che concordare con il Legislatore che ha posto un presidio di natura penale a tutela dei minori ingiustamente privati di sussidio da parte di un genitore. Ma un presupposto indefettibile dell’azione penale deve essere una normativa civile certa e corretta; e la materia degli assegni di mantenimento è troppo aleatoria e soggetta all’arbitrio del giudice perché si possa ammettere che l’omesso adempimento di un’obbligazione imposta giudizialmente con criteri del tutto arbitrari e aleatori possa comportare responsabilità penali. Tanto più che, come ben sanno i professionisti del settore, lo strumento penale diventa troppo spesso un mezzo di abuso del processo e di coercizione della controparte spesso costretta alla scelta coatta tra il versamento di una somma iniqua o la soggezione all’azione penale.

Il costo sociale delle prassi errate di determinazione degli assegni di mantenimento va valutato da diverse prospettive; non si tratta infatti solo del costo sociale vero e proprio pagato da troppi cittadini condotti ingiustamente innanzi a un tribunale penale, già obbligati a sostenere l’onere economico del pagamento di una somma errata e ulteriormente gravati dal costo di un processo spesso inutile, per non parlare del danno esistenziale e biologico. Non va assolutamente trascurato, infatti, il costo dell’intero apparato giudiziario impegnato in tale numero di processi inutili. Su Questione Giustizia, la rivista Online di Magistratura Democratica, la più importante associazione di magistrati in cui si articola l’Associazione Nazionale Magistrati, è stato pubblicato un articolo che approfondisce il costo di un processo per le casse dello Stato; purtroppo le tabelle più importanti non sono più visibili ma sembra potersi desumere dal testo che il costo di un processo penale oscilla tra una media di 645 euro e un massimo di 2.058; il dato appare assai sottostimato e sembra non tenere conto di tutto il personale coinvolto in un processo penale e di tutti i costi, diretti e indiretti di un processo, ma poniamo che sia corretto; ciò significherebbe che ogni anno allo Stato, la determinazione degli assegni di mantenimento con criteri sommari e sbrigativi costa almeno 16 milioni di euro. Ripetiamo, il punto non è la corretta determinazione di tale somma (che casomai dovrebbe interessare alla Corte dei Conti); se il costo per l’Erario di decine di migliaia di processi penali inutili sia 16 milioni di euro o piuttosto 160 milioni di Euro è irrilevante per i nostri fini; ciò che rileva è sollevare la seguente domanda retorica: è ammissibile che decine di migliaia di persone ogni anno vengano sottoposte all’azione penale a causa di provvedimenti errati emessi dai tribunali civili, provvedimenti errati che si potrebbero evitare se solo lo Stato adottasse, per l’esecuzione delle proprie leggi, criteri coerenti, scientificamente sostenibili e conformi a quelli in uso in ogni altro Stato moderno? Si tratta, appunto, di una domanda retorica.

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