Abstract: il reddito fiscale risultante dalla dichiarazione dei redditi è un numero astratto determinato secondo le regole stabilite dal Legislatore italiano per l'esazione della sola parte di Irpef determinata secondo le regole dell'autoliquidazione. Tale numero non ha nulla a che vedere con la liquidità disponibile né con il tenore di vita. Determinare l'assegno di mantenimento al coniuge o ai figli in base al reddito risultante dalla dichiarazione dei redditi è un errore oggettivo e gravissimo che non può in alcun modo essere giusitificato con esigenze di tempestività ed economia processuale.
Il primo passo che ogni tribunale compie nel processo di determinazione dell'assegno di mantenimento è la richiesta delle dichiarazioni dei redditi dei coniugi; l'intento è evidentemente la determinazione del tenore di vita goduto dalla famiglia in costanza di matrimonio. L'assegno di mantenimento, infatti, è una somma che, in teoria, un coniuge dovrebbe versare all'altro per fare in modo che il tenore di vita dei due nuclei familiari risultanti dalla separazione sia rispettivamente equivalente. Ma qui le prassi dei tribunali incorrono da subito in un grave errore: ciò che determina il tenore di vita di un nucleo familiare è la disponibilità finanziaria, non il reddito fiscale. Il reddito fiscale è un numero astratto, determinato in base alle regole stabilite dal legislatore italiano, su cui lo Stato italiano esige le tasse (in realtà solo alcune tasse, quelle che si determinano con il meccansimo dell'autoliquidazione) e poiché l'Italia è uno dei Paesi a maggiore imposizione fiscale al mondo, è risaputo e oggettivamente vero che generalmente il reddito fiscale è un numero molto superiore alla disponibilità finanziaria. Ripetiamo: il reddito fiscale non misura né la disponibilità finanziaria né il tenore di vita.
L'errore compiuto dai tribunali è duplice, perché non solo il reddito fiscale dei coniugi non è un indicatore affidabile del tenore di vita della famiglia, ma le modalità di determinazione delle diverse categorie di reddito previste dalla legge (lavoro autonomo, lavoro dipendente, rendite finanziarie ecc.) sono eterogenee.
Questo comporta gravissime disparità nel caso frequente in cui uno dei due coniugi sia un libero professionista o imprenditore e l'altro sia un lavoratore dipendente. Infatti, mentre nel caso dei lavoratori dipendenti, il reddito netto corrisponde a grandi linee alla ricchezza disponibile, o comunque corrisponde alla disponibilità liquida utilizzata per sostenere il tenore di vita (banalmente: il saldo netto della busta paga corrisponde a un bonifico di pari importo ricevuto dal lavoratore dipendente), nel caso del reddito di lavoro autonomo e nel reddito di impresa il reddito fiscale non è un indicatore affidabile della ricchezza disponibile e del tenore di vita. Ciò è dovuto, innanzitutto ma non solo, al fatto che alla determinazione del reddito di lavoro autonomo o del reddito di impresa concorrono (o meglio, non concorrono) una grande quantità di costi indeducibili, con la conseguenza che dall'importo del reddito fiscale, per determinare la cifra disponibile per la vita privata, bisogna dedurre i costi che non sono deducibili ai fini fiscali, ma che l'imprenditore o il professionista deve comunque sostenere per esercitare la propria attività. Per fare un esempio elementare: un professionista che guadagna 100 in un anno e spende 10 di spese di gestione dell'automobile, avrà una ricchezza residua, al netto dei costi di gestione dell'auto di 90, per vivere; ma poiché i costi di gestione dell'auto sono quasi completamente indeducibili, per il Legislatore fiscale è come se non esistessero; il reddito fiscale sarà quindi 98, ma il nostro professionista in effetti avrà in tasca solo 90. Tale effetto è tanto più marcato tanto più sono i costi indeducibli che il contribuente sostiene; ma il fatto che il contribuente non possa dedurre i costi non significa che non li debba sostenere per lavorare!
Si potrebbe obiettare che anche per i lavoratori dipendenti i costi auto non sono deducibili, ma un conto sono i costi relativi all'uso privato dell'auto, che presumibilmente incidono in misura pressoché uguale su entrambi i coniugi (anche il lavoratore autonomo avrà una quota di uso privato dell'auto, che non deduce), un conto sono i costi per l'uso professionale, che sono tipicamente di ammontare più alto; due coniugi, uno lavoratore autonomo e l'altro dipendente, useranno entrambi la propria auto il sabato pomeriggio per andare al supermercato, senza dedurne il costo, ma il lavoratore autonomo avrà verosimilmente migliaia di km di uso professionale durante la settimana, quasi integralmente indeducibili.
Nella normativa italiana i costi indeducibili sono presenti in grande quantità; è recentissima la sentenza 262/2020 della Corte costituzionale che ha censurato il legislatore italiano per il troppo frequente ricorso allo strumento dell'indeducibilità dei costi per ampliare il gettito fiscale.
Poiché, come detto, nella determinazione del reddito di lavoro autonomo e di impresa sono numerosissimi i costi di cui la legge non ammette la deduzione, tale divaricazione tra reddito di lavoro autonomo/impresa e reddito di lavoro dipendente è tanto più marcata tanto più sono i costi che il nostro professionista non avrà potuto dedurre.
Confrontare redditi di lavoro autonomo o di impresa con redditi di lavoro dipendente, significa quindi confrontare dati eterogenei, mele con pere: è un errore metodologico oggettivo e grave!
Questo dato è una pura ovvietà per qualsiasi commercialista, ma la prassi di tutti i Tribunali consiste nel mero confronto delle dichiarazioni dei redditi delle due parti, senza mai fare ricorso a un commercialista che, in modo abbastanza rapido e con costi relativamente modesti potrebbe riconciliare il dato fiscale con quello finanziario effettivo. L'esigenza di semplificazione e rapidità del processo non è una valida ragione per utilizzare dati oggettivamente errati. Chi si presentasse all'Esame di Stato da dottore commercialista e utilizzasse il reddito fiscale per stimare la disponibilità liquida di un soggetto sarebbe inesorabilmente bocciato; non è assolutamente ammissibile che tale criterio sia la base incontrastata delle prassi giudiziarie.
Si potrebbe obiettare che in Italia è diffusissima l'evasione fiscale, più tra i lavoratori autonomi e imprenditori che tra i lavoratori dipendenti e ipotizzare che le prassi dei Tribunali compensino consapevolmente e forfettariamente la minore liquidità corrispondente ai costi indeducibili con una presunta maggiore liquidità di "nero" che strutturalmente i titolari di partita Iva producono; a tale obiezione è imperativo replicare che non è ammissibile che un Tribunale basi le proprie prassi su una presunzione assoluta di evasione, perché le vittime di un siffatto approccio sarebbero immancabilmente i contribuenti onesti (e sono tantissimi anche tra le partite Iva) che immancabilmente, dopo essere già stati penalizzati dallo Stato pagando imposte esose sul proprio reddito (la pressione fiscale in Italia è pari al 48,2%, il che fa dell'Italia il Paese più tassato d'Europa - Fondazione Nazionale Commercialisti, Analisi della Pressione Fiscale in Italia, 12/10/2020, https://www.fondazionenazionalecommercialisti.it/node/1498), si troverebbero obbligati anche a pagare assegni di mantenimento stimati su un importo fittizio e non effettivamente disponibile. Qualora vi siano fondati motivi per ritenere che uno dei due coniugi disponga di significativi redditi in nero (e nessuno meglio dell'ex coniuge, animato da intenti conflittuali, è in grado di dimostrarlo), gli strumenti legali di indagine esistono e non possono consistere in una presunzione contraria a ogni principio di diritto.
Il reddito imponibile fiscale non è un indicatore della ricchezza disponibile perché:
- il fatto in sé che la normativa fiscale contempli dei costi indeducibili comporta automaticamente che il Legislatore italiano non esiga le imposte in base alla ricchezza effettiva;
- la dichiarazione dei redditi, non solo non é una fotografia completa della ricchezza disponibile, ma non è nemmeno una fotografia completa del reddito, perché lo scopo della dichiarazione dei redditi è rappresentare solo i redditi soggetti a tassazione in autoliquidazione (cioè ad opera dello stesso contribuente) essendo esclusi tutti i redditi esenti, quelli soggetti a imposta sostituitva e quelli soggetti a ritenuta a titolo di imposta;
- non tutti i redditi sono tassati secondo il principio di cassa (al momento del materiale incasso); alcuni redditi sono tassati secondo il principio della competenza economica, che prescinde dall'effettivo incasso o pagamento.
Si dirà: "ma se i giudici non si devono basare sulle dichiarazioni dei redditi, su che cosa si devono basare?". L'approccio metodologicamente corretto consiste nell'assumere il reddito fiscale NETTO e di rettificarlo tenendo conto dei costi indeducibili (così come dei redditi esenti o soggetti a ritenuta a titolo di imposta); ogni approccio ulteriormente semplificativo è metodologicamente inaccettabile.
Quando un magistrato civile deve decidere in merito a una causa in materia di edilizia, si rivolge immancabilmente a un geometra per ottenere una consulenza tecnica, e lo stesso valga per le cause di responsabilità medica e per tutte le cause sulle materie specialistiche; solo nel diritto di famiglia, i magistrati italiani assumono i dati delle dichiarazioni dei redditi senza richiedere, salvo casi eccezionali, una consulenza tecnica ai professionisti a cui la legge attribuisce competenza specifica in materia: i commercialisti.
La distinzione tra reddito fiscale e disponibilità finanziaria deve essere chiarissima a chiunque si prepari ad affrontare una causa di separazione o divorzio, perché troppo spesso, anche a causa di avvocati frequentemente impreparati nella materia fiscale, nelle fasi iniziali del procedimento viene superficialmente dichiarato al giudice il reddito fiscale, alimentando equivoci, errori e malintesi che diventa poi difficile rettificare nelle fasi successive del processo.
La tabella precedente mostra la differenza tra reddito fiscale e liquidità disponibile (quindi tenore di vita) di un ipotetico professionita che fatturi 100.000 euro all'anno, simulando l'effetto di tre sole categorie di costi indeducibili (nella realtà sono molti di più e quindi l'effetto è più marcato); nell'esempio il nostro professionista, che come detto è particolarmente fortunato perché è gravato solo da tre tipi di costi indeducibili, su 100.000 euro di fatturato si ritrova con una disponibilità residua di 45.000 euro; se a questa somma applichiamo le prassi dei Tribunali, che normalmente determinano l'assegno perequativo in un ammontare che va dal 25% al 50% del reddito a seconda del numero dei figli, il nostro professionista, che in costanza di matrimonio disponeva di 45.000 euro all'anno per mantenere la famiglia, si troverà a dover corrispondere al coniuge una somma che va dai 15.000 ai 30.000 euro all'anno, di cui 7.500 in eccesso (cifra decisamente determinante considerate le somme in esame), qualora il Tribunale, come sempre accade, abbia tenuto conto del reddito fiscale anziché della disponibilità finanziaria!
Poniamo che il nostro professionista, che comincia a non essere più così fortunato, abbia tre figli; da una liquidità disponibile, al netto delle imposte di 45.000 euro, dovrà versare al coniuge 30.000 euro all'anno di assegno di mantenimento e residueranno 15.000 euro di liquidità per vivere, provvedere alle spese straordinarie di mantenimento della prole (che tipicamente non sono comprese nell'assegno di mantenimento) e al mantenimento ordinario della prole durante i tempi di frequentazione con evidente sproporzione rispetto ai 30.000 euro corrisposti al coniuge.
Vediamo ora un paio di altri esempi, un po' didascalici se vogliamo (ma tutt'altro che irrealistici), e tuttavia utili a radicare nel lettore un concetto fondamentale: il reddito fiscale non ha nulla a che vedere con la ricchezza disponibile!
1) Il rampollo
Il Sig. Gianluca è l'erede di una ricca famiglia imprenditoriale; Gianluca è dedito alla cura del proprio profilo Instagram dove pubblica video del proprio elicottero e balletti coreografici dalla piscina della propria villa in Sardegna. La fonte della ricchezza di Gianluca sono i dividendi che periodicamente vengono distribuiti dalla società di famiglia; Gianluca infatti è stato estromesso da ogni incarico amministrativo ma conserva una cospicua partecipazione nella società che gli garantisce un benessere fuori dal comune. I dividendi subiscono una ritenuta a titolo di imposta del 26%, con conseguente esonero dall'indicazione nella dichiarazione dei redditi.
Reddito da dichiarazione dei redditi: 0.
Liquidità disponibile: 20 milioni di euro.
2) La ferramenta
Paolo e Giulio sono due fratelli e gestiscono la società di famiglia, una S.n.c. che ha un negozio di ferramenta. Con la pandemia di Covid molta gente ha riscoperto il bricolage e la società ha chiuso l'esercizio 2020 con un utile di 200.000 euro. Paolo e Giulio decidono di reinvestire gran parte dell'utile nella società per ampliare i locali. La S.n.c. tuttavia è tassata secondo il cosiddetto principio della trasparenza: la società non paga imposte, ma l'utile di bilancio confluisce direttamente nelle dichiarazioni dei redditi dei soci. Paolo e Giulio devono dichiarare ciascuno 100.000 euro di imponibile, ma si limitano a prelevare dalle casse solo il necessario per pagare le imposte e lo stretto necessario per vivere, di 1.500 euro al mese, lasciando il residuo nella società per pagare i nuovi investimenti.
Reddito netto da dichiarazione dei redditi: 50.000 euro.
Liquidità disponibile: 18.000.
3) Il fornitore di ospedali
Francesco ha una srl che opera nel commercio di prodotti medicali; i suoi clienti sono ospedali pubblici. Con la pandemia la sua società è stata letteralmente sommersa di ordini di dispositivi medici. Francesco è andato in banca, ha chiesto di incrementare i finanziamenti, ha ordinato migliaia di mascherine, le ha vendute agli ospedali emettendo regolare fattura alla consegna e indicando il fatturato in dichiarazione dei redditi, come prescritto dalla legge, secondo il principio di competenza economica, che prevede la tassazione non al momento dell'incasso, ma al momento della consegna del prodotto. Ma le pubbliche amministrazioni hanno tempi di pagamento lunghissimi. Arriva il 31/12 e la società di Francesco ha moltissimi debiti verso le banche, non ha ancora incassato nulla e non ha potuto pagarsi nessun dividendo. Il reddito della sua dichiarazione dei redditi personale è pari a 0, così il giudice chiede di vedere la dichiarazione dei redditi della sua società, che ha avuto un fatturato altissimo e un utile altrettanto alto, ma Francesco non ha ancora visto un soldo e potrebbe anche fallire, se gli ospedali dovessere ritardare ulteriormente i pagamenti.
Reddito (della società): 500.000 euro.
Liquidità disponibile: -200.000.
4) Le imposte
Proseguiamo con l'esempio precedente. Francesco in qualche modo riesce a non fallire e prosegue l'attività per due anni, sempre più indebitato. A un certo punto, finalmente, comincia a ricevere qualche pagamento dalle pubbliche amministrazioni. Francesco è un cittadino onesto, che ha sempre regolarmente dichiarato tutti i propri redditi e si è trovato indebitato verso l'Agenzia delle Entrate, senza avere la liquidità per pagare le proprie imposte. Dopo un paio di anni, come detto, finalmente comincia a incassare qualche fattura. Ma oltre alle imposte dell'esercizio in corso, deve pagare anche quelle vecchie, per le quali si è incolpevolmente trovato indebitato. Ma poiché le imposte non sono deducibili dal reddito, anche questo non risulta dalla dichiarazione dei redditi.
La dichiarazione dei redditi, ancora una volta, non riflette il tenore di vita di Francesco, poiché a fronte di una situazione finanziaria estremamente critica, la dichiarazione dei redditi rappresenta una società che dichiara redditi alti anno dopo anno.
Per ciascun esperto di diritto tributario questi sono concetti basilari; è diffuso il concetto di "doppio binario" per evidenziare come il mondo tributario e quello economico/finanziario siano di fatto due mondi paralleli con pochi punti di contatto; nel modello di dichiarazione dei redditi per le società di capitali, per le quali la divaricazione tra dati fiscali e dati civilistici è particolarmente accentuata, esiste addirittura un quadro (il quadro RV) per rappresentare queste differenze. Desumere il tenore di vita dal reddito fiscale non ha più senso che andare alla cassa del supermercato e pretendere di pagare la spesa alimentare utilizzando un modello F24 per pagare i biscotti con un credito Irpef.
Una prassi operativa più corretta, anziché utilizzare il reddito fiscale medio, potrebbe essere utilizzare la giacenza media dei conti correnti, che è effettivamente ciò su cui si basa il tenore di vita ordinario di una famiglia, molto più del reddito fiscale, ed è un dato che ciascuna banca può fornire facilmente (si ribadisce che, qualora ci siano fondati motivi per pensare che uno dei coniugi disponga di redditi in nero, il giudice dispone degli strumenti per accertarli).
In conclusione, è necessario che tutti (magistrati, avvocati, cittadini) abbiano ben chiaro che il reddito imponibile è un dato che non ha nessuna correlazione diretta con il tenore di vita; il reddito imponibile è un numero astratto, determinato secondo regole stabilite dallo Stato italiano in base alle proprie esigenze di gettito erariale; per desumere la capacità di spesa dal reddito fiscale sono necessarie operazioni di riconciliazione tra dato fiscale e dato finanziario, relativamente semplici, ma imprescindibili.
Segue:
Lorenzo Cornia - dottore commercialista
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